Brillano i metalli preziosi mentre le obbligazioni perdono lustro
+ La politica monetaria espansiva dei piani di QE, nonché l’assenza di soglie minime dei tassi d’interesse, costringono i mercati a prezzare un contesto di tassi negativi che si estende lungo tutta la struttura a termine del mercato obbligazionario
+ Nel momento in cui i rendimenti corretti per l’inflazione reale diventano negativi, s’interrompono i flussi di reddito provenienti dalle obbligazioni HY, tradizionalmente considerate un porto sicuro
+ Quando i rendimenti sono trainati esclusivamente dal prezzo, le obbligazioni high grade si trasformano in un’asset class sempre più speculativa da detenere in portafoglio e l’oro assurge quindi allo status di attivo altrettanto sicuro, se non di più
+ La nostra view sull’asset allocation: la forte performance dell’oro potrebbe contribuire alla diversificazione dei portafogli multi-asset grazie alla sua correlazione negativa con i segmenti azionario e obbligazionario
Proprio nel momento in cui stavano scemando i timori di un rallentamento in Cina e le commodity e i mercati azionari stavano segnando una ripresa su scala globale, l’esito elettorale della “Brexit” ha nuovamente mandato in corto circuito la fiducia dei mercati. E’ aumentato il rischio e i prezzi degli asset sono sempre più disomogenei, soprattutto in Europa. Mentre i rendimenti da dividendo dei mercati azionari sfiorano picchi da “post crisi finanziaria”, i rendimenti dei titoli di debito governativi high grade sono scesi in picchiata, toccando nuovi minimi. Oltre al danno la beffa: le obbligazioni sovrane dei Paesi indebitati ora appaiono vulnerabili, nonostante la fitta trama di stimoli monetari che però non riesce a contenere le pressioni sul settore bancario, riaccendendo le inquietudini di rischio sistemico.
Oro: il re è tornato
L’oro, che sembrava avere perso le proprie attrattive di bene rifugio, ha riguadagnato ancora una volta l’interesse degli investitori. Quest’anno, i metalli preziosi sono stati interessati da una netta ripresa: i future sull’oro e l’argento sono saliti rispettivamente del 29% e del 46%. I forti afflussi mostrano con evidenza il sentiment rialzista negli ETP sull’oro: 21mldUSD registrati per gli ETC sull’oro quest’anno, una netta inversione di tendenza rispetto ai 3,4mldUSD riscattati nel 2015.
2011-2015: i tassi d’interesse reali spingono il sentiment verso asset “sicuri”
Dopo il significativo crollo del 2011 la percezione nei confronti dei metalli preziosi è cambiata nel corso di quest’ultimo anno. Considerato un bene rifugio nei periodi d’incertezza e d’inflazione elevata, gli investitori hanno iniziato a rivolgersi all’oro quando la politica monetaria delle banche centrali è diventata ultra-accomodante e i prezzi delle commodity, petrolio in testa, sono schizzati verso l’alto alimentando le aspettative d’inflazione. Ciò è quanto accaduto chiaramente durante e subito dopo la crisi finanziaria. Tuttavia, dallo scoppio della bolla tra il 2011 e il 2015, l’oro ha faticato a riprendersi in un contesto d’incertezza politica ed economica senza precedenti.
Ciò è emerso in maniera evidente soprattutto subito dopo che il Congresso non è riuscito a rialzare il tetto del debito e con il conseguente “shutdown” degli uffici pubblici statunitensi nell’autunno del 2013. Durante questo breve episodio che ha minacciato l’esistenza stessa del mercato obbligazionario, le ripercussioni immediate sui mercati monetari sono state subito violente, con i rendimenti dei T-Bill USA più volte in rialzo nelle prime due settimane di ottobre. Tuttavia, in quel periodo l’oro non dava segnali di vita e, contrariamente alle aspettative, i future sull’oro e l’argento sono scesi, contribuendo ad una chiusura del 2013 in deciso ribasso per i metalli preziosi.
Che cosa è successo e perché?
A determinare il mancato decollo dell’oro nel 2013 è stato principalmente il fatto che il mercato abbia “prezzato” tassi di lungo periodo positivi e più elevati quando la Fed ha lasciato intendere che avrebbe dismesso il programma di acquisto di titoli governativi, attuando il cosiddetto “tapering”. La sola eventualità di un irrigidimento è bastata agli investitori per assumere posizioni ribassiste sull’obbligazionario, invertendo così bruscamente il trend di calo dei tassi d’interesse, sia in termini reali che nominali.
2016: la politica monetaria ultra-accomodante e i tassi negativi sono una vera manna per l’oro
Se osserviamo gli Stati Uniti ci accorgeremo che il quadro per l’oro e le obbligazioni è l’esatto contrario: l’interesse per l’oro resterà alto fino a quando il contesto macro-economico rimarrà, ironia della sorte, disinflazionistico. Nonostante la fine del programma di QE agli inizi del 2015 e il primo rialzo dei tassi in oltre un decennio (dai 25 ai 50bp nel dicembre di quell’anno), l’orientamento della politica monetaria della Fed è ancora estremamente espansivo: l’inflazione core si attesta a circa il 2% e tende a salire in un contesto di stimoli alla spesa ancora ingenti.
In Giappone, la situazione economica sostiene un orientamento di politica monetaria pro-inflazionistico ed ha insegnato alla Fed - oltre che alle banche centrali europee - che è più facile contrastare l’inflazione che la deflazione. La manovra giapponese di rialzo dell’imposta sulle vendite, passata dal 5% all’8% nell’aprile 2014 (e al 10% nell’ottobre 2015), ha provocato un’inversione del trend delle spese per i consumi e frenato lo slancio inflazionistico così faticosamente promosso dal programma di QE della banca centrale nipponica.
Di conseguenza, i futuri rialzi dei tassi negli USA, se si verificassero quest’anno, dovrebbero avvenire gradualmente ed essere di modesta entità. Prima di convincersi che i prezzi al consumo in generale riescano a crescere ad un ritmo sostenibile di circa il 2%, obiettivo di lungo periodo, la Fed vorrà vedere schizzare verso l’alto l’inflazione sui salari. In assenza di forze trainate dalla domanda, in grado di spronare l’inflazione, il ritardo del ciclo di rialzo dei tassi comporterà rendimenti sui Treasury USA difficilmente in grado di offrire agli investitori reddito sufficiente a compensare l’inflazione. In effetti, gran parte della curva dei rendimenti dei Treasury USA – dai titoli in scadenza fino ai cinque anni- è negoziata su rendimenti inferiori all’inflazione headline. E, se si escludono i settori volatili di energia e alimentari, anche i Treasury USA decennali non sono all’altezza e non lasciano agli investitori altra scelta se non quella di assumersi un considerevole rischio di credito pur di ottenere un reddito reale dall’obbligazionario USA.
La disinflazione provoca un’inarrestabile riduzione dei rendimenti obbligazionari
L’eccezionale allentamento delle politiche monetarie e il crescente output gap hanno spinto i rendimenti agli estremi negativi. I titoli governativi a scadenza più lunga sono da poco passati in territorio negativo, non solo in termini nominali ma anche in termini reali. Come mostra anche il Grafico 2, il mercato ora si aspetta che i tassi d’interesse reali a lunga scadenza di Germania, Francia, Svezia e, di recente, Regno Unito seguano il Giappone, attestandosi attorno ad un valore negativo dello 0.8-1.0%.
Se i rendimenti obbligazionari nominali fossero negativi in un contesto deflazionistico, potrebbe ancora essere vantaggioso detenere dei bond, ad esempio negli scenari in cui la deflazione è più elevata rispetto al rendimento nominale negativo. Ad esempio, visto l’elevato potere d’acquisto reale, gli investitori domestici nipponici hanno allocato per decenni le proprie risorse sulla liquidità e i bond a basso rendimento. Tuttavia, negli scenari in cui il rendimento nominale scende al disotto dell’inflazione e le obbligazioni sono detenute a scadenza, si disintegra il potere d’acquisto. Il valore attuale netto delle cedole e del capitale sarà inferiore all’investimento iniziale, traducendosi in una perdita reale per gli investitori.
L’Europa sulle orme del Giappone
Anche il programma di QE implementato dalla BCE e la politica di tassi a zero o inferiori allo zero di Danimarca, Svezia e Svizzera difficilmente svaniranno presto, poiché la maggior parte dell’Europa deve ancora colmare l’output gap della crisi finanziaria che ha reso queste economie vulnerabili ai rischi di deflazione. Questi ultimi non vanno sottovalutati. Come osservato nel Grafico 2: i prezzi al consumo ovunque in Europa hanno stentato a raggiungere l’obiettivo del 2% perseguito dalle banche centrali dal 2009 in avanti. La maggior parte dei Paesi non ha assistito né all’inflazione dei prezzi al consumo né, come la Svizzera, ad un deciso fenomeno deflazionistico.
Un buon parametro di stima del periodo di permanenza in territorio negativo dei tassi d’interesse europei può essere desunto dall’arco temporale che è stato necessario agli Stati Uniti per chiudere il loro output gap. Ad esempio, se si valuta l’output gapcome il numero di posti di lavoro persi dalla fine della crisi finanziaria, gli oltre 4 milioni di posti di lavoro creati negli USA dal 2008 hanno coinciso con l’attuazione a più riprese del QE della Fed, durato quasi quaranta mesi[1]. Nello stesso periodo, l’Eurozona ha perso 3,3 milioni di posti di lavoro; tuttavia il programma di QE della BCE non ha che un anno. Pertanto, lo scenario da considerare per l’Eurozona sarà probabilmente il prolungamento del QE oltre il 2017, così come la diffusione dei rendimenti negativi al di là dei Bund, con ripercussioni sulla maggior parte della struttura di lungo periodo delle emissioni sovrane high-grade per Paesi come la Francia, l’Austria, i Paesi Bassi, il Belgio e la Finlandia.
Circa il 25% del debito governativo in circolazione nell’Eurozona sta offrendo rendimenti negativi. Se gli emittenti dei titoli di debito vengono pagati per ricorrere al prestito, gli acquirenti accettano dei tagli sul denaro prestato. A meno che gli investitori non si aspettino una decisa deflazione, non ha molto senso detenere fino alla scadenza bond a rendimento negativo. A tale proposito, gli investimenti nel reddito fisso diventano sempre più speculativi, trainati dalle aspettative di apprezzamento delle quotazioni e di compressione degli spread del credito, anziché dal potere d’acquisto delle cedole e del capitale. Rispetto ai metalli preziosi che non hanno un flusso di reddito di cui dare conto, il fixed income ha iniziato ad apparire sempre più affine all’oro.
Rialzisti sull’oro fino a quando permarrà il trend deflazionistico
L’appetibilità dell’oro è alimentata da un lato dal QE e dall’altro dall’output gap ancora ampio dell’Eurozona. Gli investitori che cercano di diversificare i propri portafogli potrebbero ritenere l’oro un asset più adatto.
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[1] I piani di QE1, QE2 e QE3 si sono protratti dal dicembre 2008 al dicembre 2013